I 50 anni di Sgt. Pepper

Ci sono dischi che inevitabilmente fanno parte della storia. Anzi della Storia, con la "s" maiuscola. Della storia della cultura popolare, della musica del secolo scorso, ma anche del costume, della moda e, a ben guardare, di molto altro ancora. Anzi, di dischi così ce ne sono pochi. Forse ce n' è uno solo ed è, senza alcun dubbio, "Sgt. Pepper' s Lonely Heart Club Band" dei Beatles. Il disco, pubblicato cinquant' anni fa, il primo giugno del 1967, è uno di quelli che ha cambiato il corso della musica e, in parte, della cultura giovanile, è l' album che ha marchiato gli anni Sessanta, è un oggetto di culto ancora oggi venerato da innumerevoli fan. Ed è un opera completa, alla quale si lega indissolubilmente un supporto, il disco in vinile, che trovava in "Sgt. Pepper" la sua realizzazione più alta. Esagerato? non molto. Basta scorrere, velocemente, i titoli dei brani che compongono l' album, da quello che da il titolo all' intero lavoro alla bellissima "With a little help from my friends", cantata nel disco da Ringo Starr e trasformata in uno straordinario gospel moderno da Joe Cocker. Da "Lucy in the sky with diamonds", alla dolcissima "She' s leaving home", da molti considerata la più bella canzone dell'album. Dal rock di "Getting better" alla magniloquenza musicale della conclusiva "A day in the life". Canzoni, dunque, ma destinate a restare nel tempo, a toccare la coscienza e l' immaginazione di chi le ascolta, ancora oggi, e resta rapito dalla straordinaria ricchezza sonora, dalle complicate trame produttive che diventano magicamente delle semplicissime melodie, dagli scenari sonori inattesi (l' eco dell' India in "Within you Without You", il suono vaudeville di "When i' m sixty-four"). La nuova versione arrivata da qualche giorno nei negozi, rimixata da Giles Martin, figlio di George Martin, negli studi di Abbey Road, e ricca di molte tracce inedite, versioni originali e altre meravigliose curiosità per appassionati, ha il pregio di suonare in maniera straordinariamente attuale senza nulla togliere del suono originale. Provate, ad esempio, a fare il confronto con il suono della batteria, spesso “affogato” nella versione originale e oggi

Ringo non è il fan n.1 di “Sgt. Pepper”: “È uno dei dischi fondamentali della nostra storia, ma non è il mio preferito”, ci aveva detto qualche anno fa. “E’ certamente un grande disco, ma durante le registrazioni non ero particolarmente coinvolto, la maggior parte del tempo ero in giro, non è un album al quale sono sentimentalmente legato. Il nostro modo di lavorare era cambiato, ognuno di noi si muoveva in maniera più indipendente e anche le registrazioni seguivano questa linea. Francamente preferisco Revolver o il White album. Non voglio dire, lo ripeto, che “Sgt. Pepper” non sia un grande disco, anzi, se pensi che c’è quella che è diventata la mia canzone per eccellenza, “With a little help from my friend” non potrei proprio dire che è un disco che non amo o non apprezzo l’album. Anzi, “Sgt.Pepper”, è un disco incredibile e ci siamo molto divertiti a farlo, ma gli altri due, e questo è un fatto, sono stati più un lavoro di gruppo”. George Harrison era della stessa opinione, quando lo intervistai, molti anni fa, mi disse “Il fatto che le session di registrazione dell’album non fossero fatte da noi tutti insieme non mi piaceva molto. Nei tempi precedenti ci mettevamo insieme, imparavamo le canzoni e le suonavamo, invece per “Pepper” le cose furono diverse, registravamo a pezzi, mai tutti insieme, poi c’erano sovraincisioni e altro, il che rendeva il lavoro piuttosto noioso per quello che mi riguardava. Non voglio dire che il disco non venne be, anzi alla fine è un gran bel disco, ma non ero particolarmente soddisfatto di come lo avevamo realizzato”. McCartney è invece molto fiero del lavoro, come ci disse qualche anno fa: “Era un album complesso, cambiammo idea sulla sua realizzazione molte volte, ma ogni idea che arrivava era una nuova sfida. Avevamo cambiato modo di lavorare, usavamo lo studio di registrazione in maniera molto più cosciente e questo allargava di molto i confini della nostra creatività. “Stg. Pepper” fu in realtà una porta che si apriva, entravamo in una fase diversa, sia della nostra vita insieme, avevamo smesso di fare concerti, ognuno di noi stava sperimentando cose diverse, sia della nostra creatività, la musica cresceva e cambiava”.
Del resto era il 1967, l' anno mirabilis della cultura giovanile, il climax di un sogno che serpeggiava in ogni angolo del mondo, e che esplose nella cosiddetta summer of love, sospinta dall'utopia californiana secondo la quale il mondo poteva essere ridisegnato da concetti ingenui, semplici, ma profondamente rivoluzionari: l' eguaglianza, la gioia, la creatività, e ovviamente l'amore, di tutti verso tutti. Praticamente un nuovo vangelo, profano, blasfemo, venato di psichedelia. Gli hippies in quel momento, prima che diventassero moda, sembravano poverelli francescani disposti a perdere ogni avere pur di dimostrare la bellezza della vita fuori dall'ossessione consumista che il baldanzoso capitalismo di quegli anni aveva imposto al pianeta. A San Francisco, soprattutto, le famiglie hippy della Baia aprono free store dove non circola denaro e gli oggetti possono essere ottenuti tramite baratto, alcune associazioni giovanili aprono le prime free clinic dove offrono assistenza medica gratuita, mentre pattuglie di giovani avvocati organizzano studi legali alternativi per sostenere le battaglie del movimento anche nei tribunali. Le università (quella di Berkeley in particolare) diventano centri di organizzazione di questa nuova realtà dove non ci sono leader riconosciuti, dove la democrazia diretta viene applicata con rigore, dove la violenza è ancora lontana. E Londra risponde con altrettanta creatività, la città si tinge di colori psichedelici, i negozi di Carnaby Street vendono abiti coloratissimi che invadono pian piano anche le boutique del centro, la moda giovanile diventa una sorta di diktat per chiunque voglia sentirsi al passo con i tempi. Nel 1967 la musica rock diventa "la" musica del mondo giovanile, un suono che riesce a descrivere la realtà e i sogni di un movimento molto più grande e più ampio di quello che si vede nelle strade, sui giornali, nelle televisioni che seguono con curiosità e preoccupazione i fermenti delle nuove generazioni. Più ampio perché coinvolge anche i ragazzi che restano a casa, quelli che non hanno ancora il coraggio di scendere in piazza o di farsi crescere i capelli lunghi, o di vestire in maniera bizzarra. è l' anno in cui i sogni sembrano diventare realtà e i ragazzi di ogni parte del mondo provano la infinita ebbrezza di quello che fu chiamato l' assalto al cielo. Fu l' età dell' innocenza, prima che arrivassero la droga, la violenza e le contraddizioni della politica a minare quello sfrenato ottimismo. Pochi mesi dopo l' Europa fu incendiata dalle rivolte studentesche, e di lì a qualche anno il sogno si sarebbe trasformato in un incubo. Ma nel 1967 era legittimo crederci, per una volta il cielo aveva lanciato bagliori visionari. E milioni di giovani se n' erano nutriti.
Sgt. Pepper unì tutto il mondo giovanile. Sembra incredibile dirlo oggi ma fu esattamente così. Il disco fu amato dagli hippies californiani e dai rivoluzionari in procinto di esplodere nel 1968, fa amato da chi cercava nuove strade nella spiritualità orientale e da chi voleva dar fuoco al mondo, fu amato da ragazzi semplici e poco interessati alle vicende del pianeta e da quelli che il pianeta lo volevano salvare. Era un disco che rappresentava tutti i giovani di tutto il mondo e che tutti i giovani in tutto il mondo ascoltarono come se fosse loro. Era un disco e un caleidoscopio, era una lente d’ingrandimento della realtà e un microscopio per vedere quello che l’occhio normalmente non vede. E poi c’era quella copertina, con i volti della storia e dello spettacolo ad attorniare i Beatles, un colpo di genio di uno dei più grandi artisti pop inglesi, Peter Blake, a stabilire i colori di quella che di lì a poco sarebbe stata la clamorosa "estate dell' amore" di San Francisco, con gli hippies, il movimento, e il sogno di cambiare il mondo. “Era difficile negli anni Cinquanta trovare un pubblico interessato alle cose che facevamo noi. Ma con l' inizio del decennio successivo le cose cambiarono molto. Anche per merito della musica”, ci disse Peter Blake qualche anno fa, ricordando il suo rapporto con la musica, era cresciuto come tutti i ragazzi della sua generazione con il jazz e lo swing, poi aveva incontrato il rock' n' roll, Elvis, e nelle scuole d' arte aveva trovato i ragazzi del beat e del nuovo blues. «Ricordo di aver visto il primo concerto degli Stones, ho conosciuto tutti i musicisti di quella generazione, i Kinks, gli Who». E soprattutto i Beatles, per i quali ha realizzato la copertina, la cover più celebre della storia della musica, quella di Sgt. Pepper. «I Beatles li ho conosciuti attraverso Philip Harrison, che era l' art director della Bbc, aveva lavorato a Liverpool e mi aveva detto che lì c' era dell' ottima musica. Quando i Beatles vennero a registrare il loro primo show televisivo mi invitò alle prove. Li conobbi allora, e restammo in contatto. Ma fu Robert Fraser, il mio mercante d' arte, amico di McCartney che nel 1967 ci mise in contatto per la copertina del disco. Loro inizialmente avevano pensato a un gruppo di design olandese, The Fool, che poi chiamarono a dipingere il murale dell' Apple Boutique, ma Robert suggerì loro di non fare semplicemente una copertina psichedelica, ma che un' artista avrebbe dovuto creare qualcosa di originale, e così fu». Fu Blake ad avere l' idea di una «folla magica», realizzata con un collage di immagini di gente famosa che sarebbe stata loro fan. «Mi diedero una lista con i loro personaggi preferiti, ma ci sono anche alcuni miei suggerimenti, come Dion, Sonny Liston, Shirley Temple». Per il lavoro di Sgt. Pepper Blake fu pagato solo duecento sterline: «Fino a pochi anni fa non ho avuto nemmeno il diritto di poter lavorare su un' opera che è mia», aggiunge. Ma al di là dell' amarezza per il compenso Blake sa bene che la copertina dell' album beatlesiano resta una delle sue opere preferite: «È stato un piacere averla fatta, ha trovato un posto d' onore nella cultura popolare e nell' arte contemporanea, e per un' artista è un risultato notevole»
Insomma, a ben guardare “Sgt. Pepper” non è solo un disco, non è soltanto una bellissima collezione di canzoni. è un opera d' arte, unica e irripetibile, perfetta e magnifica, un gioiello che ancora oggi riesce a brillare senza aver subito le ingiurie del tempo, realizzato da John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr nel momento più alto della loro stagione creativa. Un disco che va ascoltato, perché racconta come eravamo, come volevamo essere, come potremmo essere ancora.

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Un commento

  • Caro Ernesto, mi sono ARRICREATO nel leggere i due post di oggi!sembra il compleanno di tutti noi...ma "Il Sergente Pepe era mio padre"chi l'ha scritto?tu?!?