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Leonard Cohen, ritratto del poeta da vecchio

Dal '67 di "The Songs of Leonard Cohen" al nuovo "You Want it Darker", mezzo secolo e ventisei dischi senza andare fuori tempo. Nel recente capolavoro il maestro canadese guarda le cose dall'altro lato della vita, la fine

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Leonard Cohen, You Want it Darker (Sony)
 
Chissà se il Nobel a Leonard Norman Cohen avrebbe smorzato, anche per via degli 82 anni indossati come uno dei suoi abiti neri di sartoria, le polemiche di parte letteraria verso il premio assegnato – e finalmente, e meno male – a Robert Zimmerman, in arte Bob Dylan. Che in effetti il poeta e scrittore ebreo canadese di Montreal – che ci ha appena inviato un’altra delle sue lettere d’amore in forma di disco, You Want it Darker – letterato inoltre nasce e per giunta con immediati trionfi in mezzo Occidente. Dunque, almeno in teoria, di Dylan assai più gradito, nella circostanza, dal vasto partito degli indispettiti letterati in purezza. Tant’è. Sarebbe però molto bello che i signori di Stoccolma, ora che hanno aperto la strada, si ricordassero prima o poi pure di questo scarno, elegante, sofferto, dolcissimo dandy di lettere e note. Di quest’uomo fra gli uomini, cui è toccato il fato di farsi loro poeta, amico e complice di quel mistero che chiamiamo vita.
 
Un futuro da grande scrittore. Il talento di Cohen è precoce quanto lampante: intorno ai 25 anni esordisce con raccolte di versi e un testo teatrale “critically acclaimed”. Nel ’66 torna da un sabbatico settennato a Idra, Grecia, terra allora promessa di tanti nordamericani off, per confermarsi scrittore d’altissima caratura. Lo dicono nuove poesie (la discussa raccolta Flowers of Hitler), l’arcinoto e venerato romanzo Beautiful Loser, il cui titolo porta in nuce un archetipo esistenziale da beat generation: i “belli e perdenti”, e il suo appena un po' meno noto fratello The Favourite Game. Ma un’altra Musa sta danzando la sua seduzione nel giardino di Cohen: la musica. Incontrata, manco a dirlo, per le strade del Village vestita di un folk lieve per voce e chitarra. Da allora fra il Maestro, la poesia e la musica sarà sublime, indistruttibile ménage a trois. Non a caso, lungo la strada dei suoi, con questo, ventisei dischi (compresi antologie e live, come il superbo Field Commander Cody, 2001), è appena il 2011 quando Cohen riceve l'ultimo suo riconoscimento letterario, il blasonatissimo Premio Principessa delle Asturie. Che nel 2012 andrà a Philip Roth, da anni fra i papabili per il Nobel, e che Dylan aveva già portato a casa nel 2007 ma nella sezione arte.

 
La copertina dell'album "You want it darker" 
 
E furono subito capolavori. Ad una giovane Judy Collins, che nel ’67 gli chiede un par di canzoni per il suo ellepì In My Life, Cohen porge per prima, così, come nulla fosse, nientemeno che la celestiale Suzanne, diamante fra i più luminosi dell’intera storia della musica popolare. Nei decenni a venire degna di circa 500 riletture, tutte d’autore. La cosa non sfugge al solito John Hammond, da Billie Holiday a Springsteen il più formidabile produttore di sempre, che lo porta alla Columbia. Come Suzanne, e quasi tutto ciò che la seguirà, anche il primo ellepì è un capolavoro: Songs of Leonard Cohen, già gravido di pietre miliari dalla francescana, personalissima bellezza musicale. Che Cohen è andato cercando sia da solo che con gli Army o arrangiatori di fama come Paul Buckmaster e un insospettabile Phil Spector, senza mai flirtare con nulla e nessuno: la sua bellezza difforme, lancinante di uomo inadeguato che parla ad altri inadeguati, l’ha sempre e solo cercata nel proprio mondo. Più volte omaggiato da raccolte dei migliori: da Nick Cave ai REM, da John Cale, U2 e Peter Gabriel fino a Laurie Anderson e Beth Orton, e son solo un pugno. Un mondo fatto di canzoni classicissime dalle melodie perfette, lineari e immediate, innestate su armonie elementari, disciolte in una soluzione di ricordi folk, sussurri gospel fra Hammond e cori, cartoline d’antichi cabaret, ballad della miglior tradizione, in questo caso avvolte qua e là in una malinconia dagli echi tardo elvisiani. Non è l’uomo di zolfi e rivoluzioni in musica Cohen – come ad esempio invece Tom Waits, per restare sullo stesso campo da gioco – vano aspettarsi da lui note incendiarie o pentagrammi copernicani.
 
Un disco avvolto nella grazia degli archi. Se Ten New Songs (2001) aveva forse peccato di superbia elettronica - ma il rischio è dovere d'ogni grande artista - con altri ottimi lavori (Dear Heather, 2004, Old Ideas, 2012, e Popular problems 2014), Cohen se n'è allontanato fino a questo capolavoro "triste, solitario y final". Nel quale brilla discreta la grazia degli arrangiamenti scarnificati all'osso e ovunque, come in altre felici occasioni, dominati dagli archi – le piccole sezioni come il violino solista. Al punto di dare all’opera tutta, anche nelle scansioni ritmiche, un elegiaco, caleidoscopico tono cameristico. Come ha sempre fatto, Cohen procede reinventando colori e atmosfere della forma canzone. È questo il suo impagabile merito di compositore, che in You Want it Darker s’è fatto affiancare, con esiti ottimi, da Patrick Leonard e dalla vecchia conoscenza Sharon Robinson. Mentre il semisconosciuto figlio Adam, del quale con qualche sforzo si rammenta un disco a metà Novanta, firma l’esemplare produzione.
 
Facendo i conti con la vita. Non sapendo bene con quale corona incoronare questo re solitario e, malgrado i tanti devoti adoranti, inimitabile, riottoso alle masse e i loro riti, nel 2008 gli han messo sulla testa, che col rock in senso stretto aveva piuttosto poco a che fare, quella della Rock and Roll Hall of Fame: nella prolusione all'investitura Lou Reed lo ha definito il "cantautore più grande e influente". Vero o quasi, ma in ogni caso c'è anche lo scrittore che non dismette mai la penna. Perché è con quella che nascono i suoi testi. Quel dilemma dunque, il Maestro non l'ha mai sciolto, riuscendo a restare sempre entrambi, in entrambi manifestandosi senza regole fisse, nutrendo le due vocazioni come un unico figlio. Miracolosa alchimia di un mistico metropolitano, ebreo convinto ma da quarant'ani e più legato alla cultura cinese e al buddismo (nei '90 ha risieduto a lungo nel monastero californiano di Mount Baldry, dove nel 1996 è stato ordinato monaco col nome di Jikan, silenzioso), voce leale d’una umanità senza pace perché lacerata fra dubbio e speranza. Che nei testi di You Want it Darker pare però far scivolare il punto di vista da quelli di sempre – amore, solitudine, depressione, ingiustizia sociale come delle relazioni, l'Occidente predatore inesausto  – verso quello di un signore di 82 anni, benissimo portati malgrado tutto (il furto, per dirne una, di circa 6 milioni di dollari per mano del suo ex agente, da qui l’intensa ripresa dell’attività live degli ultimi 7-8 anni, che lo mostra inoltre in una forma a dir poco smagliante), che si appresta a fare i conti con la vita vista dalla fine sempre più vicina. Cosa che forse, a rifletterci, Cohen non ha mai smesso di fare. Con una lingua e un verso visionari e cristallini, sognati ma reali.
 
Cori ebraici ripensando all'infanzia. Un viaggio all’indietro che dalla fine, anzi dalla morte perché è giusto darle il suo nome - e d'altronde ne ha esplicitamente parlato lo stesso Cohen in una recente intervista al New Yorker - guarda agli inizi lontani della title track. Il cui incedere ipnotico, una malia quasi dub, evoca l’infanzia di Cohen e la sua educazione ebraica attraverso il coro della sinagoga Shaar Hashomaym guidato dal suo cantore Gideon Zelermyer. E prosegue attraverso l’elogio di quel compromesso che da giovani suona onta (Treaty e il suo struggente reprise); il desiderio vissuto ormai con consapevole, serena malinconia, come una foto ricordo virata seppia (On the Level); il sogno salvifico, e come i sogni impossibile, di mollare tutte le cime per salpare verso quella libertà per la quale non saremo mai pronti (Leaving the Table). Vibrazioni profonde di un magnifico vecchio che ha finalmente imparato a viaggiare leggero e star solo con sé (Travelling Light), a pregare senza far parte di una chiesa da abbattere (It Seemed the Better Way), a misurarsi col dolore, perché non si può vivere senza, perché è la scuola migliore per rimanere umani davvero (Steer Your Way). Ed è con la voce unica al mondo di Cohen che il miracolo finisce di compiersi, grave e calda del bronzo in cui il Maestro pare da sempre forgiarla. Plastico dono sublime degli dei e affabile, indelebile marchio d’autore, che ci si fa vicino col passo antico e umano d’un recitar cantando dal quale d'improvviso la vita sgorga come non l'avevamo mai sentita.